Una indie in parlamento

Ho dovuto svuotare l’ufficio: infilare tutta la vita lavorativa in 3 scatoloni, sigillarli e lasciarli lì, in attesa di sapere dove andranno inviati. Di tutti i traslochi di ufficio (è il quinto in meno di 5 anni) questo mi è pesato un po’ più degli altri. Sostanzialmente perché non so da che parte andranno quelle scatole. Perché è una fine e io con le fini non sono molto brava.

Sono brava coi bilanci, però. E tra le mille cose che ho trovato, una delle poche che ho deciso di conservare è un cartoncino della Camera con su scritto BELLA VEZ in rosa. Non ricordo di aver mai più usato un evidenziatore rosa in vita mia.

Ecco, quel cartoncino è quello che più mi porto dietro. Era maggio, non avevo un lavoro e stavo aspettando di partire per il Primavera Sound come inviata di DLSO. Mi è suonato il telefono e mi hanno proposto di lavorare alla Camera. Di quel Primavera ricordo davvero poco, giusto qualche amico, i Blur, i Tame Impala e i Disclosure all’alba. Mi ricordo che era freddo e che non facevo altro che raccontare a tutti del colloquio che mi attendeva al ritorno. La sera prima di andare a Roma piangevo. Non avevo mai voluto così tanto qualcosa.

A Montecitorio ci ero andata con il braccialetto del festival ancora al polso, come una specie di esorcismo. Solo quando sono arrivata ho capito che il lavoro era già il mio. Dopo un’ora avevo la mail istituzionale aperta, a quella che era appena diventata la mia scrivania. Mentre ero lì che non riuscivo a crederci, mi ha scritto un amico, un fratello di cuore, un compagno. Voleva sapere come stesse andando. Mi sono girata e ho preso le prime due cose che ho trovato: un evidenziatore rosa e un cartoncino marchiato Camera dei Deputati. Ho scattato una foto e premuto invio. Andava che ero una indie in Parlamento.

Sono così indie che uso la parola ‘indie’ da 10 anni e nessuno ha ancora capito cosa significa

Se vale per Selvaggia Lucarelli, figurati dentro le istituzioni.
Ero una che saliva sui treni e andava ai festival sperduti nella campagna. Dormivo sui divani prestati, pochissime ore per poi tornare alla provincia denuclearizzata sempre troppo stretta. Avevo cassetti pieni di t-shirt di gruppi sconosciuti a cui tagliavo il colletto. Vivevo in pantaloncini e stivali. Ero Cioppy, senza bisogno di dire altro.

Ora sono una che compra di sua sponte abiti sotto il ginocchio e golfini. Ho un gran numero di t-shirt da mettere sopra le gonne a ruota ma sono di cotone bio. Ho un cassetto delle calze meraviglioso e tengo i tacchi nel mobile dell’ufficio (se mi perdono quelle scatole sono nei guai).

Una parte di me è rimasta la stessa. Dal mio pc esce sempre della musica nuova e abuso di citazioni che nessuno capisce (Renzi, impara!).
Un’altra è inevitabilmente cambiata, cresciuta, emancipata da uno stereotipo confortevole in cui avevo trovato casa. Uno stereotipo in cui non riuscivo a riconoscermi nei miei punti di forza. Il Parlamento ha reso la indie speciale.

Ero entusiasta, la vita era meravigliosa! Come poteva non essere così per tutti miei colleghi? Come potevano non vedere? Nel tentativo di convincere il più cinico ho finito per permettergli di spezzarmi il cuore. Poi lui se n’è andato. Io ho continuato ad amare la vita e il cuore è guarito piuttosto in fretta.

Per un certo periodo sono uscita con uno che chiamava il bidone dell’indifferenziata “INDIE”. Ho permesso a me stessa di innamorarmene e di credere di avere trovato qualcuno come me. Sono qua a parlarne al passato, la conclusione è piuttosto ovvia.

Ho commesso l’errore di credere di aver bisogno di un compagno per non essere sola. In realtà sono la più ingrata delle fortunate. Non sono stata sola nemmeno un minuto in questa città sconfinata. Sono piombata a lavorare in un posto popolato di trentenni come me, gente con cui era facile scherzare e prendere una birra dopo l’ufficio. Una gamma di storie e di umanità meravigliosa.
E in questa umanità ho incontrato le mie nuove sorelle, diverse, colorate, sorridenti e tenaci. Una nuova famiglia che si aggiungeva a quella meravigliosa di donne lasciata a casa e quella stimolante e fondamentale trovata nell’indie.

Proprio come con i diritti, aggiungere non ha tolto nulla a nessuno, ha solo arricchito la mia vita.

Ieri sera ho salutato alcune di queste splendide donne romane e qualcuna si è commossa. Lascio Roma per un po’, il tempo di andare a votare e torno ma questo momento mi ha dato l’occasione di riflettere su quella che ero, 375 hashtag fa, e scoprire che mi piace da morire quella che ancora sono: una indie in parlamento.

Perciò, campagna elettorale permettendo, questo blog cambierà un po’ faccia e, soprattutto, nome. Perché non c’è niente di meglio dell’essere fieri di chi si è.

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