la felicità, all’improvviso

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ci sono le volte in cui pensi che in fondo sia tutto inutile. quelle volte in cui il tuo arrancare costantemente alla ricerca di una qualsiasi risposta esterna va a sbattere contro l’ennesimo, invalicabile muro. ci sono state anche per me, a migliaia a dire il vero.
il bello della Vita è che somiglia molto al bastardo di cui ti sei innamorata: ti tratta di merda, non ti chiama mai e ti ignora, ma basta una sola telefonata per far sì che tu gli perdoni tutte le angherie passate e inizi a prefigurare il vostro zuccherosissimo futuro insieme.
STRONZA.

la Vita si comporta proprio così. ti prende a calci la maggior parte del tempo e quell’unica volta in cui ti riconosce qualcosa tu finisci per perdonarla e pensare che sia tutto ripagato.
io non lo so se tutto sia ripagato nella mia esistenza. sinceramente la Vita ha accumulato un debito verso di me che un cattivo pagatore in confronto è Roman Abramovich.
ho sempre cercato di costruire, in fondo, anche se non sapevo con certezza cosa. come quei bambini che iniziano a giocare con i Lego e non sanno cosa diventerà la loro opera.
ma io costruivo, lo sapevo.
costruivo sicuramente il mio animo, rincorrevo la sua voce, i suoi desideri, tentavo spasmodicamente di assecondarlo perché lì, me lo sentivo, lì c’era la risposta.
il mondo esterno, per contro, aveva tutte le intenzioni di scoraggiarmi. era partito soft, un po’ in sordina, per poi finire con l’artiglieria pesante.
“La sua preparazione ad oggi non è granché spendibile nel mondo del lavoro. direi che vale come un neolaureato… ha pensato di fare un master?”
questo era il corrispettivo di un calcio nello stomaco, per capirci.
forse la Vita ci mette alla prova, soppesa il nostro amore. che se avessi ceduto al primo calcio non ci avrei fatto una bella figura, no? che razza di innamorata sarei stata, arrendendomi alla prima versione del “non le pare un po’ fuori luogo credere nei sogni?“?!
se mi fossi arresa avrei finito con l’essere complice della mia infelicità. avrei ancora una volta infilato la testa nella sabbia e finto di non conoscere quel che in realtà sapevo benissimo di me e della mia ricerca.
perchè da qualche parte c’era la felicità perfetta per me. la dovevo solo raggiungere. allora forse stavo costruendo una scala, chissà…
non lo so a che piolo sono e non so se la Vita la perdono. so che la amo e che se non l’avessi amata così tanto non mi sarei quasi fatta uccidere a calci pur di non cedere. e allora credo che sia per questo che quella bastarda, alla fine, si sia convinta che me la meritassi una risposta.
forse è solo fortuna, ma il punto è che so di meritarmi tutto questo e che il lavoro degli ultimi cinque anni converge, dalle direzioni più disparate, su questo gradino altissimo della mia scala. quello su cui mi trovo ora, da cui mangio panini in fretta e furia in una Roma arsa dal sole che imparerò a conoscere e a chiamare casa, spero.
quello da cui posso fermarmi un attimo a guardare il panorama, ciò che c’è intorno e ciò che sono.
quello per cui viene voglia di aprire una chat e sigillarlo questo momento.

c’è questa cosa per cui lavoro fino alle due e in sostanza sono sempre sommersa di cose da fare. non ho ancora l’accesso alla mensa e fuori è l’africa, una cosa impensabile. prendo un panino al bar, metto i vampire weekend nell’ipod e mi piazzo sulla panca di marmo della piazza, proprio sotto il sole. scopro un po’ le gambe, il vento mi scombussola i capelli. il panino è buono e la luce è pazzesca. sto ballando. sto ballando seduta, lo giuro.
è così, è spaventoso, ma realizzo che, sì, sono felice.

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