Piatti spaiati #2

piatti spaiati #1piatti spaiatiIl weekend rubato al tour è un evento rarissimo. Il mattino dopo scopro che ha fatto programmi: anche lui non vede l’ora.
– Ho portato dei vini buonissimi e magari potremmo invitare un po’ di gente a cena. Magari cucino io.
Sì. Mille volte sì. Musica di sottofondo, vino in quantità e buon cibo: le mie serate preferite. E in più di solito non ho le sue gambe su cui sedermi quando ci si sposta sul divano.
Invitiamo i suoi amici con le fidanzate: delle rompipalle in carriera, perennemente a dieta e costellate di corna. Non posso oppormi: quando è in zona lo monopolizzo e i suoi amici li vede molto di rado, in effetti. Venerdì usciremo con le ragazze e i miei amici: gente composta e sbarbata ma piena di ironia e tanto intelligente che lo ha sempre trattato come uno di famiglia. Gli amici che conservo dopo il trasloco sono persone speciali, me ne rendo conto ogni volta che li sento e, conoscendo tanta gente di tutt’altra portata, ho imparato a non darli mai per scontati.
Riesco a strappare due posti per Katia e Max, il suo ragazzo, che fa il dj e di musica ne sa.
Sembra una condizione imprescindibile per essere ammesso a tavola con quella gente lì: devi saper suonare qualcosa oppure avere una cognizione sconfinata in fatto di gruppi di nicchia ultra cult. In alternativa puoi andare a letto con qualcuno con una di queste caratteristiche.
È così che mi sono ritrovata in quel mondo. Molti credevano che fosse perché andavo a letto con lui ma poi si sono accorti che potevano parlare con me: amichevole, curiosa e non del tutto impreparata nonostante le gambe lunghe. È stata una bella soddisfazione, in effetti. Non è un caso che mi trovi più a mio agio con i suoi amici che con le mogli: io la dieta l’ho abbandonata da anni.

Katia è come me. Sexy ma con gusti musicali squisiti e una raffinata intelligenza che la abilita a qualsiasi confronto. Max è un grand’uomo, così certo di volerla da non dar seguito ai suoi picchi di isterismo: la lascia sfogare. È confortante il pensiero di avere attorno persone così, quasi a conferma di meritarmele. Arrivano con quel quarto d’ora di ritardo molto chic e mi trovano in cucina a fingermi affaccendata per non dover affrontare le signore da sobrie. Max mi abbraccia affettuoso e mi porge una meravigliosa crostata alla crema, la mia preferita. Poi si lascia trascinare in salotto, che la conversazione è già entrata nel vivo e lo stereo freme.
Katia mi stringe in un abbraccio fraterno e lunghissimo e mi infila una rosa di seta rossa tra i capelli.
– Mi sei mancata stronza! Dimmi come ti aiuto.
– Ho quasi fatto, sai? Se vuoi le altre sono di là che bevono un bianco profumatissimo…
La guardo sarcastica e la sua risposta e tanto silente quanto esaustiva: sì, mi è mancata, persino quel suo sguardo ma anche no.
– Tieni, sguscia i pistacchi.
Si siede su un mobile con le gambe penzoloni e la ciotola in grembo.
– Allora? Come stai? Sei magra che fai spavento!
– No, dai non esagerare… È solo che son di corsa. La stagione di prosa parte prestissimo quest’anno e quelli del festival comico mi stanno massacrando… Lunedì ti chiamo che quel grafico da strapazzo mi ha fatto un progetto pietoso!
– Per quei quattro soldi che ti pagano ti agiti troppo, sai? Comunque, quando vuoi, che mi fa piacere.
– Sai che i soldi non c’entrano. Il teatro è una vocazione.
– …sì, ma potrebbe rallentare con il resto e invece fa l’integralista anche dai miei, nemmeno l’albergo fosse il suo! – interviene lui, venuto a stappare un’altra bottiglia – L’altra sera si è addormentata alla lavanderia self service! Però è cocciuta e la lavatrice non la vuole.
Mi bacia mentre mi rimprovera. Lo adoro quando calza i panni del super eroe protettivo. D’altro canto la bimba indifesa non sono riuscita a farla fuori e mi son dovuta accontentare di rinchiuderla in uno scantinato del mio petto, mentre intorno diventavo forte e indipendente.
– Hai idea di quanto costi una lavatrice? Non ne vedo il motivo, davvero. – Rispondo mentre guardo la mia amica, in cerca di approvazione.
– Beh, la soluzione ci sarebbe… – insiste allusivo, con un odioso sorriso sarcastico in faccia.
– Peccato che nessuno la consideri una soluzione. – polemizzo.
La cosa non è più divertente e non mi va di rovinarmi la serata. Torna dai suoi ospiti ed io tento di scacciare il malumore spostando i capelli dietro l’orecchio. Non faccio i conti con la coscienza che sta sbucciando pistacchi poco più in là e mi guarda interrogativa. – – La soluzione si chiama matrimonio – le spiego – dal niente se n’è uscito così l’altra sera. Come se sposarsi serva a questo: a pagare elettrodomestici di cui non so che farmene.
– Tu credi nel matrimonio…
– Io credo nell’amore che porta al matrimonio, nel non poter fare a meno di qualcuno al punto di volerlo anche sulla carta d’identità, sulla dichiarazione dei redditi,… non credo alla convenzione, al dirsi moglie e marito né, tantomeno, ai parenti che regalano lavatrici. Lui non ci crede. Ci ho messo anni a capire che una persona ti ama alla follia anche se non ti sposa, che non cambia nulla, che mi da tutto se stesso anche senza vincoli legali. E ora ci scherza, come se di colpo fosse diventata una stronzata! Beh, per me non lo è. È la rinuncia che sono disposta a compiere per lui, perché ne vale la pena.
Lo sguardo di Katia è la solidarietà che smorza i toni, è quella comprensione che permette a noi donne di non sentirci sole nelle nostre nevrosi: ciò che serve a me per tornare serena.
– E’ che ci si dimentica che anche l’uomo migliore della terra a tratti sa essere un coglione. – commenta caustica e mi sorride, stemperando il tutto con quel piglio femminista e stilisticamente perfetto.

Ci uniamo alle signore, portando l’insalata di arance e pistacchi come scusa per il nostro ritardo. Mi cerca con lo sguardo, ad indagare il mio umore. Gli sfioro appena una spalla per confermare il mio essergli a fianco, in ogni caso. Mi verso dell’ottimo vino, pronta alle frivolezze.
Visto il divano irrimediabilmente assediato dai maniaci del pentagramma, le signore si sono accomodate intorno alla tavola apparecchiata e stanno finendo i miei salatini di pasta di pane, in barba alle diete e ai tubini costosissimi. Giovanna è l’unica che mi disturba davvero. È la moglie di Ferdinando, l’amico di una vita, il compagno di merende: quello delle discoteche, della musica in cassetta, delle schitarrate fino a tarda notte. Sono gli orgogliosi genitori di Giammaria, 10 anni, palleggiato tra i saggi di violino e gli incontri di scherma: un bambino bellissimo e taciturno.
Molto bella nonostante la magrezza inumana, da ragazza aveva una genuinità che la carriera legale ha opportunamente estirpato. Aveva conosciuto Ferdi a lezione di economia politica, in una mattina in cui, eccezionalmente, la sua coscienza di studente debosciato aveva deciso di farlo alzare prima di mezzogiorno. C’era questa graziosa ragazza della prima fila senza monetine in tasca e lui si era azzardato a pagarle un caffè alla macchinetta. Il 30 ottenuto all’esame, l’approvazione di mamma e papà e il di lei senso dell’umorismo avevano fatto il resto.
Ne aveva di senso dell’umorismo allora! Era divertente e splendida in scarpe da ginnastica, così mi è sempre stato raccontato. Poi le ambizioni, la carriera, Giammaria che è forse il ragazzino più bello che abbia mai incontrato ma anche il più stressato, poverino!
La vita l’aveva cambiata, diceva Ferdi.
Si era scelta la vita per cambiare, penso io, giungendo al punto di barricarvisi dentro, escludendo ogni imprevisto.
Il bel ragazzo che beveva caffè con doppio zucchero la aveva assecondata ed ora si ritrovava chiuso fuori, con l’unica via d’uscita delle bevute con gli amici e delle scappatelle con le colleghe.
Può sembrare che la compatisca e forse dovrei, ma Giovanna è una stronza snob e la trovo talmente sgradevole da non riuscire a chiamarla in altro modo se non per esteso. Adoro Ferdi, è spiritoso, amichevole e sinceramente dispiaciuto di avere una moglie del genere. A volte, guardandolo, capisco il perché di tanta avversione per il matrimonio da parte dell’amico.
Si è presentata a casa nostra con uno zuccotto ed una paletta da dolce in acciaio inox: una di quelle cose che spariranno nel cassetto della cucina. Indossa un tubino nero e degli zoccoletti che scoprono una pedicure impeccabile.
Non che voglia a tutti i costi fare la snob, ma è luglio e dal mio terrazzo si vede il mare. C’è un’aria salmastra che sveglia la pelle e tutte le voglie. E’ una di quelle serate che aspetto con ansia per la mia gonna gitana, con le cavigliere comperate in Marocco e gli occhi fasciati di nero. Katia ha un top fiorato e degli shorts. Ha dei tacchi vertiginosi e sono abbastanza sicura che la suola rossa voglia dire qualcosa. Non siamo donne che non fanno caso ai dettagli, siamo solo capaci di festeggiare, di celebrare i momenti felici come questo, buttando alle ortiche i panni da lavoro.
Giovanna no, lei non smette mai di essere avvocato. Madre-avvocato, moglie-avvocato persino amica-avvocato, come una maschera che non sa mai togliere. Non è tanto per la diversità di opinioni che non la sopporto, sarebbe tollerabile, mi divertirei anche a riderne se non fosse così presuntuosa. È la prosopopea con cui declama le idiozie in cui dice di credere. La presunzione di essere la sola nella condizione di poter emettere giudizi ed il fatto che non se ne risparmi mai neanche uno. Il suo reddito stellare, il suo stato civile, i voti ed i presunti talenti di suo figlio, il suo arredatore, le sue scarpe firmate,… Tutte cose indispensabili che lei ha e il resto del mondo vorrebbe avere ma non può perché non ha la sua classe, il suo talento, la sua determinazione. L’unica cosa di cui dovrebbe vantarsi è il marito, abbandonato, invece, agli ultimi posti della sua personale classifica.
Non ci ho mai litigato ma Katia un paio di volte l’ha apostrofata con un trasporto che le riconosco solo in rare e particolarmente irritanti circostanze.

I miei salatini sono già stati definiti troppo grassi e la mia tavola troppo piccola per tutti quegli ospiti. Appena mi siedo torna all’attacco, come se avesse deciso che quella sia la serata ideale per trasformarmi in una perfetta padrona di casa.
Mi si avvicina ammiccante mentre succhia un salatino (sono abbastanza certa che sia lo stesso da oltre un’ora)
– Tesoro, la prossima volta fatti regalare un servizio di piatti tutti uguali: è davvero un peccato servire la cena sui piatti spaiati! Poi tu che cucini così bene… Valorizzati! Metti che avevi invitato Bergonzoni, che figura ci facevi?
– Meno male che ha invitato solo te – la voce della mia principale fan taglia la stanza in due e tutte le altre si zittiscono.
– Non ho un servizio da 12 Giovanna, non mi serve. Se invitassi Bergonzoni sarebbe perché lo reputo in grado di capire che la mia cucina e la mia conversazione valgono il disturbo di una tavola apparecchiata male. Che è poi il motivo per cui sei qui anche tu.
Le strizzo l’occhio, convinta di averla placata, rigirandole contro il suo stesso pugnale.
Mi sbaglio, continuo a sottovalutarla.
– Ma tu senti che discorsi! Guarda che la gente di teatro non è diversa dall’altra gente, cosa credi?! Hanno avvocati e consulenti finanziari anche loro. E riconoscono un’ospitalità fatta come si deve! Quanto vuoi che costino due piatti in croce, Santiddio!

Sta salendo agli ultrasuoni, inizia a disturbare le valutazioni sui massimi sistemi poco più in là.
– Giovanna che c’è? – chiede Ferdi. (a quanto pare, nemmeno lui riesce a trovare a quella strega di sua moglie un nomignolo affettuoso)
– Mi rimprovera perché non ho un servizio da 12. – sorrido. Sono decisa a porre fine a questo buco nero dei contenuti. Tutto purché si smetta di parlare di stoviglie davanti ai miei cubetti di baccalà, non se lo meritano! – Non voglio piatti tutti uguali comperati appositamente per le cene con gli amici. Vorrei avere sempre ospiti con l’amore per il picnic.
Sorrido e mi alzo per andare a servire i ragazzi, che la musica mette fame.
– Beh, considera che prima o poi dovrai invitare anche gente che non fa parte del tuo quotidiano, magari un discografico, un finanziatore… – mi mette in guardia Carlo, il commercialista percussionista – Ma hai presente di chi sei la moglie?!
– Eh, no! Non dire così, che non sia mai ci si sposi, noi! Avere posate e piatti coordinati, sai pazzo?! – risponde una voce sguaiata.
È la sua, lo so, non ho bisogno di guardarlo per
scoprirlo. Sarcastico, indiscreto e superficiale.
La mano che schianta il piatto a terra è la mia. Il silenzio polare nella stanza lo provoco io.
Esco.
Che uscirei dalla casa, dal palazzo, dalla città ma ho l’ombrina nel forno, sarebbe un peccato bruciarla.

piatti spaiati #3 

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