Piatti spaiati #1

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Chiudo il PC non appena inviata l’ultima mail della giornata, quella a mamma. Viviamo ad appena 30 km l’una dall’altra, abbiamo i cellulari, lei ha anche un telefono fisso, eppure ci riesce molto meglio scriverci. Almeno su quegli argomenti che esulano dal menu della cena e dalla salute dei gatti. È come se fossimo incapaci di evitare di sbranarci su tutto il resto, perciò ci scriviamo.
Questa è la mail del lunedì, quella in cui le spiego quanto sia stato difficile l’ennesimo weekend senza di lui. Ma anche quella in cui le racconto dei suoi sms dalle peggiori bettole del Paese, nel cuore della notte.
“Che secondo me le stelle stasera sono a basso consumo, non si sprecano
Questo è quello di venerdì, da Agrigento. O forse Trapani, non me lo ricordo. Me lo aveva detto al telefono poche ore prima ma quando ho letto il messaggio stavo rientrando dalla serata con le ragazze e non me lo ricordavo più.

Non riesco mai a memorizzare i posti in cui va a suonare fino a che non trovo il modo di accompagnarcelo. È lì che poi tutti i racconti riemergono simultaneamente e la scena si colora di personaggi appena immaginati.
Mi piace essere con lui in tournée, anche i suoi colori sono più sgargianti. Gli occhi gli brillano e ogni parte di lui ride, incontrollata. Poi mi adora. È come essere in vacanza tutto il tempo. Non che di solito non mi adori, anzi. So che è così anche se non lo dice. Ma avermi lì mentre lavora, mentre fa ciò per cui vive è il non plus ultra. Come quei personaggi dei videogiochi che bevono la pozione energizzante o mangiano il fiore magico. È lui, ma amplificato.
Mia madre non le può capire queste cose. Non le ha mai capite. Quando da piccola mi diceva “quel che conta è che con un uomo ci devi andare a dormire tutte le sere, non quanto guadagna” di certo non immaginava che l’avrei presa così alla lettera. Forse pensava che avrei perso la testa per un promettente neolaureato, come era successo a lei. E magari, con la giusta dose di complicità ed impegno sarei riuscita a renderlo un uomo brillante e un marito devoto.
Mia madre non ama il gioco d’azzardo. Dev’essere per questo che magari pensava ad un rischio calcolato anche per me. Niente di più sbagliato. La mia generazione non si trova a suo agio con gli ossimori: o rischi o calcoli.
Aut aut.
Ed io ho rischiato. Per mia madre ho rischiato alla grande, pazza incosciente che non sono altro.

E così niente lavoro in banca, niente notaio e niente fiori d’arancio. Lavoro per un piccolo teatro, mi occupo della segreteria, dell’accoglienza agli artisti e di tutta la pianificazione degli eventi. Il resto del tempo aiuto sua madre in albergo. Me la cavo bene coi clienti, il mio inglese è buono e il sorriso in famiglia lo hanno amato tutti da subito.
E poi vivo con lui. Dividiamo il piccolo appartamento in centro che i suoi gli hanno comprato anni fa, quando il conflitto sembrava incolmabile e il cuore di un genitore tende a fare regali piuttosto che cercare di capire. Abbiamo una gatta che razzola libera sui tetti del centro, neanche fossimo al Colosseo.
Lui suona, vive di musica. E di me.
È impossibile spiegare come, ma lo so. So con assoluta certezza che la nostra vita insieme muove i suoi giorni così come i miei. Quando ci siamo conosciuti eravamo tanto ingenui. Lui pensava di poter vivere da solo e tenere il mondo alla larga da tutto. Era convinto fosse l’unico modo per fare davvero ciò che desiderava, vivere la sua vita ed essere coerente con le proprie idee. Io credevo che lo avrei sposato e lo avrei trasformato in un marito in giacca e cravatta. In pratica ero mia madre.
Il giorno in cui mi sono trasferita da lui mi era chiaro che ormai avevo imparato a volare e che lui fosse il mio rischio autentico. Mi ero buttata, senza ali e senza rete, convinta che avremmo volato insieme, noi due. Lui non lo aveva ancora capito, invece.
Mentre disponevo le mie cose nel bagno si era affacciato sulla porta e, guardandomi dallo specchio, mi aveva detto: – Non credo nei ‘per sempre’, lo sai sì?
Non mi ero scomposta. Il mio riflesso lo aveva guardato impassibile ed aveva iniziato a ricomporre il beauty case.
– Credo che dovresti aggiungere qualcosa a questa premessa, se non vuoi che me ne vada.
– Per esempio? – era davvero incredulo, smarrito. Lui il gesto lo aveva fatto, mi aveva chiesto di vivere insieme: darmi le chiavi, farmi spazio (tanto) nell’armadio e ricordarsi di abbassare la tavoletta. Era disposto a fare tutto e questo era per lui un dono immenso, il più grande che fosse in grado di fare. La domanda infelice aveva il solo scopo di dargli il giusto peso. Come a spiegarmi che stavo ricevendo tutto ciò che aveva da offrire.
– Che sono il motivo per cui hai sorriso ogni giorno negli ultimi due anni. che lo sarò anche domani. Che ogni giorno ti chiederai se sia ancora così. Che mi ami e che fino a che sentirai tutto questo il mio spazzolino sarà il benvenuto affianco al tuo. Che tu sei così e che amarti significa capirti anche quando dici stronzate come questa. Che io ti capisco perché io ti amo. Che conta solo questo. Avevo gli occhi dritti nei suoi mentre gli davo la risposta che chiedeva. Non doveva fare altro che baciarmi.
Lo fece.
Finii di disfare le valige molte ore dopo.

È così che è iniziato il gioco dei che. Ci piace da matti. È solo nostro. Un’altra delle cose che mamma stenta a capire.
Che il sense of humour di tua madre è un po’ anoressico
Lo aveva lasciato scritto in cucina mentre i miei erano venuti a trovarci.
Che non avrei potuto amare nessun altro.

Mamma ora vado perché stasera è giorno di bucato. Un bacio grande anche a papà. Saluta la gatta.
Il lunedì è giorno di bucato. Il martedì palestra e il mercoledì si stira: lui con la chitarra da un lato, si interrompe per aiutarmi a piegare le lenzuola, io stono a squarciagola su ogni nota e gli sparo il vapore addosso.
Che il mercoledì è il nostro giorno preferito.
Preparo la sacca della biancheria ed esco. Non abbiamo la lavatrice, costa un casino. Vado alla lavanderia a gettoni. Passeggio un po’, ascolto musica e mentre aspetto il bucato leggo un libro. Lui il lunedì ha le prove e quando ha finito mi trova che piego i calzini. Finisce sempre che ci ritroviamo i calzini spaiati nel cassetto.
Stasera no. Stasera è in viaggio. La trasferta siciliana lo ha portato ad allungare fino a Roma per delle registrazioni pomeridiane: arriverà tardissimo. Sono molto arrabbiata con la Sicilia: dovrò piegare calzini da sola, il ché rende l’attività molto meno divertente.

Il libro che sto leggendo è un po’ noioso. Credo sia per questo che mi addormento sul sedile della lavanderia. O forse è solo un periodo un po’ faticoso, non saprei. L’estate è densa di eventi teatrali e l’albergo lavora tanto. Mi sveglia lui accarezzandomi i capelli. Ha piegato tutti i panni e li ha chiusi nella sacca.
– Ci serve una lavatrice, non puoi faticare così.
La lavatrice costa troppo. E quella non è fatica, è solo un libro un po’ lento, meglio leggerlo sul divano.
– Che agli sposi la lavatrice gliela regalano… – è di spalle mentre lo dice, fintamente noncurante.
Che lui non crede al matrimonio e ai ‘per sempre’ e una lavatrice non è un buon motivo per rinunciare a ciò in cui si crede.
Questa ultima cosa non gliela dico: sa da solo a cosa è disposto a rinunciare e perché.

A casa trovo la tavola apparecchiata e un trancio di pesce spada con capperi e limone: a quanto pare la Sicilia è arrivata nella nostra cucina. Mangiamo in silenzio e poi a letto mi racconta del suo weekend. Al buio, avvolta dalle sue braccia, chiudo gli occhi e mi godo le mirabolanti avventure del mio uomo. I piedi sotto alle lenzuola si cercano, disegnano intrecci e parlano di eterno.
-Quanto rimani?
– Dieci giorni
Buonanotte.

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