L’Italo per Bologna lo annunciano sempre all’ultimo e regolarmente è dall’altro capo di Termini. Poco importa, perché poi comunque arriva con mezz’ora di ritardo.
Bologna Centrale è il solito aeroporto sotto e la solita piazza sopra.
Il regionale viaggia con un quarto d’ora di ritardo. Poco male, almeno io ho trovato posto a sedere, mica come quelli in piedi nel corridoio o, peggio, in piedi tra i due vagoni, senza aria condizionata.
Arrivo a casa alle 4 e devo ancora pranzare. Ma mamma ha sempre delle piadine in congelatore e papà ha comperato il formaggio di capra spalmabile (sì, non proprio l’abbinamento tradizionale, lo so, ma fidatevi).
Mangio, mi rilasso e mi addormento su una brandina in giardino. Poi mamma viene a fare un po’ di chiacchiere fino all’ora della doccia.
Mi trucco al volo e infilo le snearkers. Ok, Devendra, arrivo.
A metà strada tra casa e casello mi accorgo che sono senza telefono e che la mia auto ha acceso una spia molto rossa. Giro la macchina e me ne torno verso casa. A metà della salita vertiginosa, la Dodo decide di morire. Dopo circa 16 anni di onoratissimo servizio lei si ferma. In salita. Alle 8 di sera. Con 28 gradi.
Mi arrampico fino a casa, prendo mio padre e andiamo all’auto. Si è raffreddata e per miracolo riparte. Il tempo di arrivare nel piazzale ed è già un concerto di rumori inediti e una luminaria di spie mai viste.
Ok, Dodo, grazie di tutto, anche di avermi riportata a casa un’ultima volta. Mi hai accompagnato ovunque, da Milano a Roma, hai lasciato che ci perdessimo nei peggiori meandri della Romagna e nei più impervi paesini delle Marche, ovunque ci fosse un palco sotto al quale valesse la pena stare, fino a tollerare persino di essere parcheggiata su una scalinata in pieno centro a Spinetoli, nell’ascolano. Non hai mosso un pistone e ti sei fatta ritirare sù a braccia dall’intero paese nel cuore della notte senza versare una goccia d’olio. Mica come me.
Cambio macchina e parto. Di nuovo. Mentre guido chiamo il Radio Taxi e ne prenoto uno per l’indomani alle 6:30. Posso farcela.
Il giorno dopo, sul treno delle 7:00, ci sono ben otto (OTTO) signore romagnole sui 40 in partenza per le vacanze. Tutte insieme. Tutte sveglie. Tutte come fossero sotto l’ombrellone.
Non riesco a dormire nemmeno 10 minuti filati. Arrivo a Roma, mi fiondo a casa, mi rendo presentabile e mi precipito in ufficio.
Nel frattempo mi ha telefonato mio padre per chiedermi una sola cosa: “Ne valeva la pena?“
Devendra Banhart è la cosa più lieve e più libera che vedrete mai calcare un palco. Ed è la cosa che più potesse servirmi in questo maledetto luglio con le catene ai piedi.
Se ne sta lì, su quel palco, e fa esattamente ciò che vuole. SOLO ciò che vuole. Parla la lingua che vuole, non è appesantito da nulla, sembra tenuto a terra dalla sola chitarra, tanto è leggero. è il manifesto vivente alla felicità, quella felicità che nasce dal fare ciò che si vuole davvero, dal seguire l’urgenza di sé. Quella vecchia storia del sapersi, dello stare nel proprio corpo a pieno, come nel migliore dei vestiti. Cucirsi addosso una vita e non doverla spiegare. Incredibile quanto sia ispirante nella sua eterea distanza da tutti, pubblico incluso.
Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore
– Italo Calvino
“Sì, ne valeva la pena, papà.“