Era successo di nuovo. Succedeva ogni volta.
Si chiamava Marta e faceva la cassiera al supermercato. Una ragazza semplice, niente fronzoli, nessuna ambizione: un personaggio abbastanza grigio, al solito. Dopo un paio di settimane passate in chat, l’avevo invitata a bere un aperitivo al molo, nulla di speciale. Marta aveva denti piccoli e labbra sottili. Sorrideva poco e ascoltava con interesse. Non parlava molto e quando lo faceva, abbassava lo sguardo, timida. La serata era scivolata con disinvoltura. Avevamo scherzato, bevuto un paio di cose, ordinato una cena leggera e una bottiglia di vino bianco. Mentre la riaccompagnavo a casa ci eravamo baciati.
Sono bravo con i baci.
Non ci avevo messo molto a farmi invitare a casa. E poi era successo. Di nuovo. Quel momento in cui lo sguardo, persino lo sguardo grigio e inespressivo di Marta, perde la scintilla del desiderio e vira in delusione, rinuncia. Avevo saputo subito che di lì a poco, negli occhi di Marta sarebbe comparsa una specie di lieve noia ad accompagnare la cortesia senza trasporto dei suoi gemiti.
Ho finito in fretta e me la sono svignata dopo poco, senza mai più cercarla. In fondo non avevo bisogno di conferme. Né di lei.
Il fatto è che ho un pene piccolo. Non minuscolo, piccolo. Dodici centimetri, in pratica un rotolo di monetine.
Dodici. Maledettissimi. Centimetri.
Lo so che non rientra nel troppo piccolo, non clinicamente. Se cercate su google, ovunque dicono che la lunghezza media del pene maschile varia da 12 a 18 centimetri. Sono a fondo scala. Il mio è il Forrest Gump dei peni: “Piccolo è chi il piccolo fa, Signore!”. Sì. Bravi. Tutti Rocco a parole ma tra le lenzuola ci siamo io e rotolino, qua.
Il fatto è che non è una cosa che rimane nella camera da letto è una condanna che ci si porta dietro ovunque, una specie di lettera scarlatta.
Ci sono quelli che sublimano facendo il piacione con tutte e si inventano un talento affascinante che attiri le donne, che ne so, suonano, scrivono poesie, si fanno crescere dei muscoli incredibili, corrono in moto,… tutta una serie di danze di accoppiamento mirate a distrarle dalla esiguità dell’esperienza finale che le attende. Se non esagerano, funziona anche. Solo che tutta quell’adrenalina, alla lunga, non regge. Finiscono per diventare ossessionati dal numero, dalla quantità e ogni donna diventa una preda. Di solito fanno la fine dei vecchi viscidi in balera, gli scapoli incalliti. Che tristezza.
L’alternativa è accontentarsi. Darsi un tono da bravo ragazzo, senza grilli per la testa, puntare alla stabilità. Sopravvivere all’adolescenza e alla giovinezza, approdare all’età adulta e contare sull’orologio biologico. Sposarsi una brava ragazza, senza troppe ambizioni, e mettere su una bella famigliola, sperando che i tuoi eredi somiglino più a tuo suocero che a te, sotto la patta.
Rassegnarsi ad un compromesso, dimenticandosi delle ragazze meravigliose su cui fantasticavi all’università e sposarsi una Marta disillusa quanto te. Mettere in conto che, con gli anni, persino le Marta finiscono per tradirti con il macellaio con il poster di Mick Jagger appeso dietro la cassa. Tenersi le corna e incarnare il ruolo rassicurante del buon padre di famiglia, la base fondante di tutta la nostra società. Morire vecchio, grigio, magari con dei nipoti con cui giocare e il dubbio che a tuo figlio stia toccando la stessa cosa. Lasciargli intendere che le cose potessero anche andare molto peggio. Una specie di Ragionier Fantozzi ma con meno sfiga.
Era ciò che avevo scelto per me: un lavoro da impiegato (in azienda sgomitavo poco e facevo ciò che mi veniva richiesto), un appartamentino pulito e una discreta abilità in cucina. Mi mancava solo la brava ragazza con cui concludere il quadro.
Ma qualcosa non tornava. Non riuscivo a fingere che andasse tutto bene quando vedevo quello sguardo, quello alla Marta. Il mio piano stava fallendo. Non poteva essere tutto lì, non era giusto che non potessi mai sognare qualcosa di veramente sconvolgente.
Solo perché non ho una mazza pazzesca di cui vantarmi? Non è mica una colpa!
Poi è arrivata Kat.
In realtà il suo vero nome è Alice. Se le chiedete che lavoro fa, risponde che è una supplente. Ha detto la stessa cosa a me, quando le sono inciampato addosso facendole cadere la spesa.
Aveva uno sguardo incredibile, ci si poteva leggere dentro la Genesi. Per farmi perdonare l’ho invitata a bere un caffè. Aveva anche una visione del mondo meravigliosa, così aperta e concreta… ci ho messo venti minuti ad innamorarmene. A quel punto mi è apparso lui: il rotolo di monetine. Come un’allucinazione mi si è parato di fronte, insieme alla lunga schiera di sguardi alla Marta. In un attimo ho avuto chiaro che Alice non sarebbe mai potuta essere nulla di più di un’amica. Non ero alla sua altezza. O lunghezza, se preferite.
Abbiamo iniziato a frequentarci e più passava il tempo, più la nostra confidenza aumentava e più io sapevo di non essere abbastanza per lei. Era così divertente! Non sarebbe passato molto prima che qualcuno più dotato di me se la prendesse e io non avrei più visto Alice. Ero pronto, disposto a correre quel rischio e a godermi ogni minuto insieme a lei.
Finché, un giorno, dopo mesi, è scoppiata in una scenata isterica, mi ha lanciato a ciotola dei popcorn addosso e ha detto che non potevo essere così maledettamente stronzo.
Ero sconvolto.
Alice in lacrime mi urlava che non potevo trattare così le persone e che il suo lavoro non la rendeva un oggetto ma che era solo un lavoro. Era sicuro, non faceva nulla di sbagliato né di rischioso e a volte riusciva persino ad aiutare le persone.
Non sapevo cosa pensare. Mai avrei creduto che un’insegnante, una supplente, potesse sentirsi discriminata. Per cosa? E io come potevo averla fatta sentire inadeguata? Ero nel panico, non sapevo cosa dire, mi sono scusato, nel dubbio. Ed è stato peggio! Una furia inarrestabile, ha cominciato a piangere e urlare insieme, digrignare i denti… la Genesi era diventata l’Apocalisse e, senza sapere perché, ero finito tra i dannati.
A sentir lei la stavo ghettizzando perché non la ritenevo alla mia altezza. Non poteva esserci altra spiegazione alla mia chiusura (ha detto proprio così, “chiusura”, lo giuro) nei suoi confronti.
Le donne sono meravigliose, eh, ma ogni tanto vorrei girare le chiavi e aprire il cofano per capire cosa stia succedendo là dentro.
“Tutto questo perché fai la supplente?!” ho chiesto al culmine dello smarrimento.
E sapete cosa ho scoperto? Alice sul lavoro si chiamava Katrina e faceva la mistress, la dominatrice. Infilava il suo bel corpo in un body di latex, posava delle ciglia finte su quegli occhi favolosi e si faceva pagare per camminare con i tacchi a spillo sopra a ricchi uomini grassocci. C’entrava il desiderio sessuale, è vero, ma non faceva mai sesso con nessuno. Nemmeno un bacio, una tenerezza, un contatto intimo, nulla. Provocava a quegli strani individui del dolore su richiesta. Li umiliava, anche a parole spesso.
Non so dirvi come mi sentivo in quel momento. Era come se lei si fosse messa a nudo e io non ci trovassi nulla di strano o di scomodo. Riuscivo solo a pensare che ora toccasse a me, mettermi a nudo. Spiegarle che per me lei era perfetta come una amazzone e io non valevo nulla di fronte a tanta forza, tanta grazia, tanto acume,…
Annaspavo tra i pensieri, non trovavo le parole. Oscillavo tra il banalissimo “non sei tu, sono io”, che mi avrebbe garantito il linciaggio, e il plateale “HO UN CAZZETTO!” incapace di esprimere a pieno la frustrazione vissuta al suo fianco e per tutta la vita, prima di lei.
Feci l’unica cosa che potesse dire tutto senza costringermi a parlare: mi calai i pantaloni. Avrebbe riso ma che importanza aveva ormai? Tutto ciò che non volevo era ferirla. Era la creatura più luminosa e preziosa che avessi mai incontrato e a quel punto dovevo solo salvarla dal dolore che stava provando senza motivo.
Ma non rise. Mi guardò come una madre guarda un figlio con le ginocchia sbucciate, come una Madonna guarda i suoi fedeli. Aveva un sorriso sereno, come di chi vede un senso superiore e non si lascia spaventare: era puro amore. E io, per la prima volta, non avevo paura.
Mi abbracciò e mi diede il miglior bacio che possiate desiderare, chiunque di voi. Era fuoco e aria, terra e acqua… la Genesi, appunto. Rotolino non se lo fece ripetere e si impettì tutto, tronfio nella sua buona sorte. Alice lo scrutò appena, mi sorrise e mi disse una cosa che non dimenticherò mai:
“Passo le mie giornate a infilare tacchi a spillo nel culo di gente che sostituisce con il dolore l’amore materno che non ha mai ricevuto. Vuoi davvero farmi credere che non possiamo sostituire quello che manca con un po’ di gomma? Amore mio, tu non sei questo. Io so chi sei.”
È per questo che la chiamo Kat: non è né Katrina né Alice, per me, è Kat, una meravigliosa creatura ibrida che solo io conosco. Così come solo lei sa chi sono davvero, al di là di rotolino.
Stiamo per trasferirci in Brasile, ho avuto una promozione. Cioè, mi affidano la guida della sede distaccata, un po’ più di una promozione. Anche lei è emozionata, dice che il nostro quartiere è pieno di macellerie.