Adios lombrico

La verità è che mi sono messa a scrivere di un grappolo di donne molto più fighe di me.
Hanno coraggio, loro. 

Andrea mi aspetta in casa sua, nell’elegante appartamento monoporzione che ho imparato a conoscere. È appena tornato dal lavoro: le luci sono accese per metà e lui ha ancora addosso la camicia. Il colletto sbottonato, i polsi arrotolati. Il lieve rumore dello sciacquone che si ricarica: ha avuto il tempo di andare in bagno.

Vieni da me che ne parliamo con calma.
È un uomo di classe, ti offre un caffè, non ti molla mica così, al telefono. Con calma. C’è un’ironia spietata in questa frase. Come se fossi mai stata calma nella mia vita. Come se potessi restare calma mentre metto gli orecchini e corro a non perdere il tram. Come se, sul serio, io stia andando ad avere una conversazione in grado di calmarmi.

Vieni da me che ti strappo il cerotto
Avrebbe avuto più senso. Con la velata ammissione che la calma se la poteva tenere.
Mi apre la porta e mi bacia sulla guancia in una placida successione di gesti ben collaudata perché possa evitare di guardarmi, almeno nell’immediato. Neanche fossi l’unica a sapere il motivo del mio essere lì, alle sette di sera, a bere un caffè in casa sua.
Non ho nemmeno messo i tacchi, non so che farmene di un ancheggio studiato per sedermi sul divano e farmi scaricare. Per una volta vorrei sembrargli piccola e indifesa. Come se, dal mio metro e ottanta, potessi mai sembrare piccola o indifesa. Faccio quel che posso.
Mi siedo sul divano e poco dopo mi si materializza di fronte una tazzina fumante.

Amaro, giusto?
Giusto. Amaro. Sempre. Stavolta in qualcosa di dolce ci speravo, a dire il vero. Stavolta mi scoccia sul serio.
Le parole riempiono la stanza, si stratificano, mi rimbalzano intorno, si mescolano. Sono le stesse di sempre anche se fanno più male del solito. Sono incomprensibili e prevedibili insieme. Inutili.
Passeggio per la stanza, bevo dell’acqua. Piango un po’ mentre cerco di formulare qualche accusa.
Ma con quali forze?
Ho davvero inventato tutto, ancora una volta? Ho reso migliore quello che in realtà stava accadendo? Che sia vero o meno non ha alcuna importanza. Lui ha deciso quale sia la sua verità. Quel che fosse vero per me, semplicemente, è sbagliato.
Mi sono sbagliata, non lo sospettava. Io ne esco da scema e lui da incolpevole. Che importanza può avere ormai?
Mi abbraccia con una sincerità spietata, i muscoli delle braccia a sorreggermi tutta, piccola come sono ora, ristretta alla mia pochezza. La pelle del collo mi sfiora la guancia: morbida, senza profumo, i nervi nascosti lì sotto. Tanto uomo quanto bambino, tanto lolita quanto madre. Un abbraccio in cui potrei vivere ma dal quale devo scappare. Non ha ritegno, non ha pietà, non ha misura.
Mi divincolo con fatica, celando come posso il dolore di dover lasciare quella presa. Mi calmo. Fingo di accettare quella versione dei fatti per cui io ero stata avvertita e lui è stato coerente.
Me ne sto lì, mentre la mia mente divaga.

Ma quando? Perché non lo hai detto? Ti giuro, non lo avevo capito…
Giurare. Come cazzo si fa a giurare una cosa del genere?! Quale parte di te sta giurando, piccolo bugiardo? Chi mi sta garantendo, croce sul cuore, che davvero lui non poteva credere che io mi fossi innamorata? Il bambino che mi aveva avvertito o l’uomo che mi aveva fatto sognare? Chi sei?
Sta parlando di me, ora. A quanto pare ho un sacco di doti. No, questa parte no. Come se volesse un salvacondotto per tornare a far finta di non sapere.
Ma io ho parlato. Le parole sono esplode sanguinolente nella stanza e hanno imbrattato tutto. Colano dalle pareti. Brandelli di verità penzolano dal soffitto e gocciolano su di lui, sulle sue guance scavate, la sua camicia a righine, le sue spalle larghe. Riesco quasi a vederle.
Ha usato il mio cuore come una palla da tennis solo che alla fine è esploso perché (pensa un po’!) è un cuore. Come può sperare di ricomporlo e avere il permesso di tornare a giocarci?
Mi fa una rabbia incredibile. Se non lo amassi forse lo odierei. Forse lo odio e lo amo insieme.
Dicevamo? Ah, sì, le mie doti. Sono irrinunciabile, insomma. Pare che senza di me morirebbe. Purché non mi salti in mente di avere una relazione: come amica.
Sono la dama di compagnia ideale. Nell’Inghilterra vittoriana avrei dovuto saper cantare, suonare il piano, comporre poemetti,… e invece oggi come oggi basta essere terribilmente intelligente, spiritosa e sagace. Peggio per le altre, che si ritrovano a fare le fidanzatine insipide che aspettano a casa, a me sì che va di culo!

– Francamente non ne vedo l’utilità. – mi ascolto mentre le parole escono da sole – A che mi serve esserti amica? Stando al tuo fianco non sono riuscita a migliorarti come uomo, non sei cambiato neanche un po’, non hai più coraggio o ambizioni di felicità di quanto non ne avessi mesi fa, quando ci siamo conosciuti. Non hai capito niente. Perché dovremmo essere amici? Così che tu possa pettinarti l’ego tutte le volte che un pensiero intelligente ti attraversa le tempie, riproponendolo a me, una delle poche persone in grado di apprezzarlo? Lasciando che ti specchi nella mia spietata ironia e ti bei nella convinzione di esserne all’altezza? Per cosa? Per vederti arrivare radioso tra qualche mese a presentarmi la futura madre dei tuoi figli e trovarmi costretta a costatare quanto lei sia più giovane di me, con il culo più sodo e quanto sia totalmente priva di personalità e senso dell’umorismo. Non saprei che farmene. Io non sono la valvola di sfogo di nessuno. Io sono tutto e tu non hai saputo che farci. Ciao.

Lo lascio lì: muto, i muscoli del viso a contrarsi per non lasciar uscire le emozioni. Come se uno sparo lo avesse colpito alle spalle. Me ne vado prima che il sangue inizi a bagnare la camicia.

Adios lombrico.

6 pensieri su “Adios lombrico

  1. Quasi irritante l’ometto del Tuo racconto per l’onesta passionalità con cui l’hai descritto. E’ un bel caleidoscopio di stati d’animo quello che hai cucito: forse condizionato dall’immagine dei “brandelli di verità” che colano dal soffitto, ho avuto l’impressione di un collage minuzioso di pensieri, uniti meticolosamente l’uno all’altro nella ricostruzione di una cronaca.
    Peccato solo mancassero le scarpe (ma questo è per mio solo gusto personale).

  2. Pingback: La Quinoa | galleggiante

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