I nostri occhi di kriptonite (guarda come siamo friabili…)

Che questa volta non potessi trovare scuse lo sapevo benissimo da me. Già quando comperavo i biglietti on line, l’ho fatto senza alcun esodo preventivo tra facebook e myspace: chi c’é c’è, io sono a Ferrara.

Si, insomma, la questione era tra me e Vasco, che dopo La Tempesta avevo ancora di più il bisogno fisico di vedermi un concerto dal capo alla coda, con annesso acquisto di cd e dialoghi monotematici per le ore a seguire.

Sette mesi dopo l’abbandono di due posti al Teatro Parenti, non ho imparato la lezione: acquisto ancora biglietti in coppia e poi mi preoccupo di trovare qualcuno con cui andare. Anche con qualcuno non necessariamente appassionato ma semplicemente paziente il minimo da farsi trascinare fino al Teatro Comunale di Ferrara e a subirne tutte le conseguenze.

L’aspetto preoccupante della faccenda é che, di solito, chi non lo ama lo detesta. Il “mi fa cagare” è l’alternativa più diffusa al mio usuale “lo adoro!“.

Circostanze del genere escludevano a priori la possibilità di farmi accompagnare da uno qualsiasi dei miei amici: troppo virili ed appassionati di musica per poter tollerare un tale culto di massa verso uno che usa tre accordi e ci stona sopra parole a caso. È inutile: sempre più spesso la poesia è roba da donne.

Quanto alle mie vicine di cuore, mai come ora si é tutte sparate ai margini del cosmo degli interessi. Il tutto sotto l’aura abituale della carenza di fondi, divenuta ormai una componente aggiuntiva del gruppo. Perciò nisba, anche le femmine eran fuori gioco.

In passato avrei optato per un amante, ma la lezione l’avevo imparata. Che se convinci uno ad accompagnarti ad un evento convincendolo che si tratti SOLO di compagnia, niente di compromettente, va da sé che questo accetti solo e soltanto in vista del premio finale. Altroché analisi dettagliata del pubblico, commenti sulle capacità dei musicisti o apprezzamenti sulla profondità dei testi. Come unica risposta avrei ricevuto monosillabi annoiati conditi dal classico sguardo “quand’é che si tromba?“.

Piuttosto sola!

che poi quando si ha il fratello che ci ho io, non si è mai sole! i patti erano chiari: io mettevo i biglietti e portavo la macchina fino a Bologna. lui si occupava della cena e del beveraggio. problema risolto, non mi rimaneva che scegliere l’abbigliamento più adatto.

teatro, concerto… che dire? abitino minimal di maglina grigia, cuissard nero senza tacco ed un velo di rouge à lèvres (al terzo tentativo ho finalmente trovato COLUI che si addice al mio incarnato invernale: bastava svenarsi sull’altare del Dio Dior!).

partita. io e la A14 abbiamo un rapporto che è fatto di amore, odio, ricordi amari, tutor pietosi e di autogrill che ricordo per nome: giusto il tempo delle consuete telefonate alla girls ed ero al casello di Bologna, pronta per la prima papera della serata!

è arcinoto che l’arrivo al casello non sia il momento più felice di un viaggio: rallenta vertiginosamente, scala marce, curva su rampe perfide mentre con l’altra mano (la terza?) cerchi il portafoglio nella borsa e peschi il tagliando nel marasma di cartacce del portaoggetti. Si, è roba da Indiana Jones innestato su McGiver, siamo serie! Ma quando la rampa è finita di solito é tutto passato, non resta altro da fare che schiarirsi la voce ed affilare le ciglia per salutare a dovere il casellante.

E invece NO! Basta distrarsi un solo istante per sentire un sinistro GniEeeOon proprio mentre la zampetta era tutta protesa verso il casottino ed il buonasera melenso era già stato emesso. E trovarsi goffissima a dover fare una retro d’emergenza per liberare il cordolo dalla morsa del pneumatico che, in una prima storica, gli avevo indegnamente strisciato contro. Che figura!!!

Il fratello scende subito, armato di teglia da forno incappucciata di carta stagnola (e di che altro, se no? ^_^), bottiglia di rosso e cavatappi. In cosmica connessione con la mia fame, giro intorno alla macchina e gli cedo la guida, brandendo golosa la cena.
attenta che sgocciola” mi dice. La sfoglia tagliata a grossi scacchi lascia appena intuire la delizia del ripieno: speck, brie e forse un sottolio… Faaameee!!!

Quando imbocchiamo la tangenziale già ho tra le mani un bel pezzo della rustica croccante, tutto bello avvoltolato in un mutandone salva goccia fatto con i tovaglioli. Il tempo di una sorsata di vino e sono pronta per passare al secondo ma un brivido lungo la schiena richiama la mia attenzione sull’abitino grigio melange che mi copre la pancia. iI grido abominevole che segue rischia di far sbandare il mio pilota:

– ma sei matta? che succede???

– guarda qui! mapporca!!!

– bè, capisco che “ATTENTA CHE SGOCCIOLA” fosse una frase troppo sibillina per essere recepita senza problemi. ci metterai un foulard come cinta.

– sono in gita scolastica! non ce l’ho un foulard! ma cavolo! sembra un secondo ombelico!!!

– sì. se fossi Budda. a me sembra solo una enorme macchia. ma che ti frega? andiamo a Ferrara a sentire quello lì che si fa le stagnole e lo racconta a tutti!

– non bestemmiare! andiamo a teatro, da Vasco, cacchio!!! Autogrill, dai, fermati.

– dammi il tempo di trovarlo, rilassati.

mi fiondo nel bagno e lascio Cico a far benzina. faccio pipì mezzo sospesa e intanto mi faccio venire un’idea. di fronte ai lavandini al muro, estraggo un micro dalla borsa, lo bagno e ci spruzzo del sapone dall’erogatore al muro. ora arriva il bello: infilare l’altra mano sotto al vestito e allungare la macchia verso il getto d’acqua. il tutto, ovviamente, senza restare a ciappe nude, condizione quantomeno sconsigliata nella toilette di un’area di servizio nel nulla padano. a quanto pare la magia mi riesce e posso tornare al mio sedile del passeggero, non prima di un lungo abbraccio al getto d’aria calda che usciva dal muro.

Ferrara è sempre lì e ogni volta che ci torno mi vengono in mente alcuni piccoli ricordi che inevitambilmente il mio cuore ha stivato nel cassetto (FE): il Savonarola, i baci del copparese, le bevute con la rovigotta, la redbull con l’heineken. non importa che poi ci sia tornata altre volte, che ci abbia visto il Gotha dell’indie rock. non fa alcuna differenza, esiste sempre quella manciata di domestica nostalgia per Ferrara fatta di due volti e di scambi universitari più o meno accademici. Il Teatro Comunale, invece, non avevo idea di dove fosse. E ad oggi non saprei ritrovarlo, non fosse altro che non si vede il Savonarola da lì.

Poi finalmente la platea. Il disco appena pagato (e non poco, eh!), l’eccitazione che affiora e rende tutto irreale, persino l’ombelico di Budda, su cui il sapone annacquato dell’autogrill non ha potuto nulla. Cico vola in bagno mentre  io mi siedo e lascio il naso gironzolare nell’aere, godendomi i fuscii tipici che precedono ogni evento. Le conversazioni captate a metà, le risate, i drammi logistici, le facce che sporgono dai palchi, il velluto del sipario a celare chissà quali tesori,… è l’estasi. Sfido chiunque a non trovarvi della leopardiana perfezione, in tutto ciò, nell’attesa. Sono i momenti per cui potrei essere anche sola, che tanto il mio cuore batte per due e le voci rimbalzano nella testa come una cassa di risonanza perfetta. Mi lascio attraversare dal potere della musica di attrarre realtà, vite, situazioni così diverse  allo stesso vibrante altare. L’assaporo fino in fondo, tutta soletta, incastrata nel mio sedile in nona fila. Me la godo. anche troppo. Che a volte è meglio fare una telefonata ed evitare di captarle certe conversazioni…

– …e poi mi ha aggiunta su facebook e il giorno dopo mi ha contattata per dirmi che mi aveva vista al multisala. ma io al multisala mica c’ero andata!

– e brava lei che ora si becca anche gli uomini…

– no, macchè, è vecchio, non scherzare! ha 27 anni, oh! mica 21, 22,… 27 son tanti!!!

dicevo: vite diverse, sì. e a quanto pare, nello specifico, anche generazioni diverse. povera me! In un primitivo moto di ottimismo ho sperato avesse detto 37…

è che poi, importa davvero poco quanti anni si abbiano. Se ci si senta giovani o vecchi, se le vite le abbiamo scritte e decise, siamo ancora nell’incerto tentativo di trovare le parole o se ci si trova nell’acerba supponenza di sapere esattamente cosa ci si scriverà, nel proprio libro. Quando si abbassano le luci e il velluto rosso scopre quei 4 figuri incappucciati, conta davvero poco quale sia la cifra sul termometro della nostra amarezza. Il violino di Rodrigo ti si insinua comunque nel midollo spinale, passando per le dita dei piedi poi sù lungo la schiena, fino alla nuca e ti sveglia la pelle. Le tastiere di Gabrielli scandiscono le ansie incessanti e le montano come la schiuma delle onde. Le chitarre le stemperano come veleno da stagnola dritto nel sangue. E Vasco su tutto, che urla, sussurra, rifiata, ti scuote con le sue liriche scarabocchiate a margine di un free press, sull’autobus del mattino. Rabbiosa poesia calpestata dalla superficialità del quotidiano. E io scossa e intenerita inizio a dondolare autistica, tenendomi le mani, dimentica del mio adorabile accompagnatore, che si delizia più degli archi che del resto.

il tutto risulta sublime, superbo e brutale insieme.

ne è stato scritto, proprio così per come è stato.

è stato anche montato, più o meno per come lo si era pensato:

ma niente e nessuno saprà ridarmi lo schiaffo di certi versi: “butteremo dei letti dappertutto, dei materassi volanti,…” che avrei pianto se avessi avuto le lacrime. ma le avevo già piante tutte, 7 mesi fa, mentre mi facevo bastare un “spero non ti sia offesa“. poi le avevo ripiante, ritrovandole chissà in quale cassetto con chissà quale etichetta, quando avevo tentato di spiegare. e ne era uscito un senza senso meraviglioso.

perciò sono rimasta a dondolare, con i miei occhi di kriptonite. fingendo di ignorare che poi ne avrei piante altre, che mi piacesse o meno.

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