mi aggiravo a bordo della Dodo, nella luce liquida della sera d’aprile. una luce da bere, mentre si specchia incolore sul mare della baia. ero andata a berne un po’ assetata, prima di tornare a casa da mamma. sul sedile accanto a me un fascicolo che pesa come un neonato. non sono così tranquilla su quest’ultima faccenda. quando mi porto a casa il lavoro è più per entrarci in sintonia, per toccarlo, per portarmelo nei sogni, per farlo entrare nell’inconscio, che da lucida non funziono sempre.
bevevo luce, dicevo, mentre gli ZenCircus blateravano eleganti insulti all’intera società di cui io ho sempre fatto parte. a volte rido di tutto questo. altre di tutto quello. tendo comunque a riderne.
ripensavo alla mia giornata: un mercoledì come altri, a cavallo tra due weekend che per i più sono festivi, per me sono lavorativi. la stranezza è che sarà lavoro retribuito e di questi tempi è strano, davvero.
era iniziata come sempre ma lievemente diversa, facendo colazione con la mamma, come una volta. una cosa che avevamo e che il 16 agosto ci ha portato via, insieme a tanto altro. a lei più che a me, a dirla tutta. ero andata al lavoro in macchina nel sole, con il nuovo cd fresco di masterizzatore a girare nell’autoradio. capricciosa e viziata stavo come al solito trovando qualcosa da fare che fosse altro rispetto alla fastidiosa incombenza che mi aspettava alla scrivania.
“qualcuno ha voglia di andarmi a comprare delle marche?”
in un attimo ero già nel sole, Annabelle e ballerine svelte, lungo le stradine del centro. un radioso sorriso alla tabaccaia ed un dettagliato elenco piuttosto lungo. pensieri leggeri e distratti mentre lo sguardo si aggirava sugli scaffali incurante. e l’ho visto. come un film in un oggetto. susseguitesi nella testa immagini, musiche, voci. un sorriso complice con me stessa. l’acquisto.
a pranzo l’estetista, che solidale mi incastra tra gli appuntamenti delle viziate signore, concedendomi i ritagli di tempo, con orecchie attente e curiose, su tutto ciò che riguarda la mia vita del momento. ascolta, chiede, commenta. mentre mi rivestivo lei ripuliva il lettino. si è bloccata un attimo, fissandomi in un improvviso silenzio. “ma tu che forza hai?!” mi ha chiesto scrutandomi, quasi cercando una batteria aggiuntiva o semplicemente la falla del mio muro. non l’ha trovata. il mio muro di gomma non ha falle, ha pieghe. ho sorriso, distogliendo lo sguardo. “certe cose ti crescono, per forza“. ho fatto spallucce e lei ha capito il senso del tutto, stupita, ammirata ma per niente distante. mi ha fatto sentire bella, non tanto per le gambe più liscie, no. mi son sentita donna, che in questo momento mi ci sento spessissimo.
pagando, nella borsa ho trovato il mio acquisto. e mi sono sentita bene. ho riso di nuovo. perchè sono in piedi sulla mie gambe. e non a stento, no. ballo. rido. prendo il buono di ogni giorno e faticosamente ricostruisco una vita spazzata via da un ciclone. sono uscita nel sole abbagliante con una nuova forza. cosa che non ti aspetti da una ceretta, di solito. ho preso il telefono e composto il numero, d’istinto.
– ho voglia di uscire… – io no. – ok.pensavo questo mentre bevevo la luce della sera che da dietro le colline salutava la distesa di liquido argento del mare. pensavo a quanto quel piccolo film da asporto fosse solo mio. pensavo al mio muro che non si crepa e alla mia luce che si ricarica con un tramonto e non chiede altro. pensavo a tutto ciò mentre rientravo in casa sorridente e mettevo quiete e luce nelle crepe altrui. spegnevo il telefono e sorridevo. non ho smesso di sorridere. quasi fossi ubriaca.
di me.