scusami. ti ho ucciso, ma avevo mangiato pesante

sulle circostanze della sua morte se n’erano sentite tante e non sembrava che le voci fossero destinate a fermarsi. io stessa la verità non la sapevo. le storie si sovrapponevano ed avevano finito per impastarsi l’una sull’altra, fino a creare un primo accenno di mitologia che rendeva la vicenda così straordinariamente irreale.

dal canto mio sapevo solo che lui non c’era più. a metà di uno dei suoi interminabili tour da zingaro (quelle bizzarre transumanze volutamente prive di logica in cui si tuffava assieme ai compari di sempre) aveva smesso di essere. di vivere.

come fosse successo non lo sapevo. non mi era stato detto e dai pettegolezzi online era chiaro non fosse morto sul palco. “peccato.” mi ero ritrovata a pensare. in fondo, l’unica cosa che avesse mai davvero amato totalmente era la sua Gibson. sarebbe stato tremendamente romantico spegnersi nel culmine di un assolo. romantico ma poco plausibile, in effetti. era troppo giovane e per contro non abbastanza tossico per morire improvvisamente nel mezzo di un concerto.

non è così importante, in fondo. quando ti telefonano nel mezzo di un pomeriggio qualunque, tutto ciò che non ti aspetti di sentirti dire è che l’uomo che ti ha stregata al limite del concepibile è morto. alla scrivania, con un documento da modificare urgentemente e senza neanche la possibilità di urlare. la voce ti rimbalza dentro ed lì che la trattieni, perchè di farla uscire… bè, semplicemente non è il caso.

così eccomi, mentre mi stendo con cura il rossetto con le mani finemente smaltate. un bell’aspetto da stronza, sì. l’abito è verde, di seta. l’ho comperato appositamente, che anche da morto deve ricordarsi che sono una figa. avere un lavoro vero ha i suoi vantaggi: quando sei sconvolta hai la mastercard, molto più dietetica del cioccolato.

non sono a lutto, non lo voglio essere. per una vita mi sono augurata che cambiasse indirizzo, che smettesse di suonare, che si rinchiudesse in eremitaggio. più lontano di così, direi che è impossibile. non sentirà la mia mancanza come non l’ha mai sentita quando era in vita. e la sua presenza io me la inventavo, sapendo benissimo che non ci fosse. è il senso di distacco che prende il sopravvento sul vuoto. è quasi sollievo.

è questo che penso dal fondo della navata, nella chiesa gremita. assurdo: ateo fino al midollo e i genitori gli fanno la funzione in chiesa. paradossale come sulla nascita e sulla morte non si possa avere alcun controllo. “sarà incazzato nero” e il pensiero mi fa quasi sorridere dietro gli occhiali scuri.

le guardo disperarsi con algido disprezzo misto a pietà. le fan. tutte uguali: anellini di cocco alle orecchie, sciarpe colorate, capelli raccolti senza grazia. alcune indossano la maglietta del gruppo. piuttosto grottesco, direi. piangono, inconsolabili. “se ne faranno una ragione” penso.

il mondo della musica si accorgerà appena di questa cosa. un po’ mi dispiace in effetti, perchè ci sapeva fare. è morto. niente più myspace da controllare, niente più concerti a cui andare. niente più conversazioni tutte uguali ed egualmente strazianti, niente più nottate insonni al suo fianco, a guardare quell’uomo dal cuore stitico mentre dorme. sono libera.

è questo che penso mentre la bara esce dalla chiesa, sulle note di una sua canzone. uno sguardo agli amici di sempre che lo portano via. esco nella luce del pomeriggio. mi accendo una sigaretta.

è sola. la lacrima che mi solca la guancia è una sola.

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