credenziali

vagavo nelle prime luci del giorno, confidando speranzosa di trovare il cantone a cui avevo affidato le mie 4 ruote. nel mentre riflettevo. nonostante i capelli arruffati e la precisione del trucco inevitabilmente abbandonata su un cuscino non mio. al dilà dell’emicrania, delle membra stanche quasi dolenti e dello stomaco sotto sopra, riuscivo a riflettere.

è come se portare il proprio fisico ai limiti delle sue capacità comporti un conseguente ingresso in una dimensione di incoscienza straordinariamente lucida.

un po’ come fumarsi una canna. mi piace, ogni tanto. ma quella sera non era possibile. avevo bevuto troppo. che poi se mischio vomito. ma tanto tra colleghi chi vuoi che ce l’abbia una canna… comunque bevono, i colleghi, eh. in effetti li credevo noiosi e invece… se la godono! e sono anche divertenti!

e non è per l’alcol. li riconosco gli sfigati noiosi con la sbornia pirotecnica. che poi finisci per ridere di loro. invece questi qui son divertenti, proprio uno spasso. ma di canne neanche l’ombra, dicevo. e poi ad una certa, la dance music tamarra dei posticini patinati mi annoia, è innegabile. lascia stare che con i tacchi alti e il giusto trucco sono da yacht club, quello è innato. non significa che mi diverta.

io ho bisogno di rock. non c’è nulla come un concerto rock per le mie viscere. gli occhi fasciati di nero e le carni denutate a poco a poco, per il caldo, per le folle. non esiste niente come sentire il bacino vibrare all’unisono con le lunghe dita di un chitarrista sulle corde. niente che sia vagamente paragonabile alla scossa nello stomaco provocata dal virile braccio di un batterista.

vedi il movimento, senti il suono e i brividi ti percuoto dall’interno. è sonoro. è tattile. è visivo. un concerto è questo. è  un’esperieza sensoriale totale. ti viene sete, finisci la voce, sudi e dalle orecchie ti entra dentro un’energia che ti connette ad ogni singola cellula. è totalizzante. arriva alla mente e sveglia la memoria, ritrovi parole già cantate, melodie già sentite, momenti già vissuti. vivi fuori dal tempo. tutto sotto la dittatura di una manciata di musicisti a cui affidi il tuo destino per quelle poche ore in cui ti voti a loro.

è per questo che adoro i musicisti. sono i sacertodi di questo rituale di moderna rivelazione in cui rievoco la mia totalità dal profondo delle viscere e mi ci connetto totalmente. io sono lì. in quel preciso momento. con ogni singola particella di cui sono composta. padrona di ogni mia estremità. è incosciente lucidità. di me e di ciò che è altro.

i musicisti sono i miei stregoni. muovono muscoli e articolazioni come un qualunque sportivo, ma quei movimenti divengono musica, armonia e finiscono per toccarmi il cuore. non c’è da stupirsi se poi quei movimenti li voglio anche addosso a me. se con sei corde e un tamburo sanno fare tutto ciò, figuriamoci con la pelle di una donna! sfido io trovare qualcosa di più allettante del raffinato modo di amare di un bassista, dell’estro di un chitarrista sotto le lenzuola o dell’irruenza mai fuori controllo di un batterista.

batterista? …hmm, ce l’ho…

caspita, però, non si può che ogni volta che tento di divertirmi con le persone di tutti i giorni come di solito si divertono le persone di tutti i giorni mi viene la voglia pazza di comporre il numero del musicista più vicino! e poi VIA, in barba a tacchi e lustrini, svignarsela dalla festa e ritrovarmi nella bettola di turno, fino al sorgere del sole a condurre le carni ai limiti.

già li vedo, lunedì mattina, con sguardi interrogativi e vagamente insinuanti, rivolgermi domande inopportune e prendersi le mie risposte evasive. fuori dall’ufficio io voglio poter essere chi mi pare, anche una groupie, se del caso. di certo una in grado di svuotarsi di ogni tensione nel letto di un amico compiacente.

pensavo a tutto questo, mentre oscillavo sul pavè di una zona pedonale che fingevo di conoscere “tanto le città romane son tutte uguali, cardo e decumano, no?“. mi sentivo divina, onnipotente, nonostante quella misera mezz’ora di sonno strappata e francamente non prevista

Belle, però domani devo andarmene all’alba, non ti puoi fermare…

non mi voglio fermare. e non chiamarmi Belle, ti prego.

a volte sono la prima a rimanere di stucco di fronte alla mia franchezza, come posso sperare che non sia così in chi mi incontra? è che quando cerco di cammuffarmi finisco per essere stantìa al limite del grottesco. è abbastanza palese che non ne valga la pena.

camminavo, verso quel bar, al limitare del centro, di fronte al quale avevo parcheggiato la mia spider. incrociavo molta più gente del previsto e non vacevo una piega di fronte alla malcelata curiosità dei passanti “ma non sono nemmeno le 7, dico io. la gente non dorme in questa città?” testa alta e avanti come nulla fosse, convinta di sapere dove stessi andando, convinta di avere un passo regolare su quei trampoli, convinta che i capelli fossero passabili e non esplosi.

convincersene: la chiave di tutto.sì, ma…. dovrei esserci, più o meno… dove cavolo sono?

Mi scusi. Il JollyBar?

Ah, ma è dall’altra parte, Signorina! per di là!

magari un po’ meno convinta, la prossima volta, eh?

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